Questa esperienza dell’appartenere a Dio significa sentirsi parte di Lui, significa che Dio ci comunica se stesso: un po’ di Lui vive in noi e noi viviamo in Lui. L’evangelista Giovanni era molto consapevole di questa realtà e San Pio la conferma scrivendo:
Tu sei interamente di Gesù, nessuna cosa dunque ti ritenga, per abbandonarti totalmente in balia della sua provvidenza. Rimani dunque, mia carissima figliuola, in tal modo fra le tenebre della passione. Dico fra questa tenebre, giacché ti lascia considerare la santissima Vergine e san Giovanni, i quali essendo ai piedi della croce tra le spaventevoli tenebre, non più ascoltavano nostro Signore, né lo vedevano, ed altro sentimento non avevano che quello del cordoglio, e della tristezza; quantunque fossero animati dalla fede, essa era anche nelle tenebre, giacché era necessario, che partecipassero dell’abbandono di nostro Signore. Deh! mia dilettissima figliuola, stimati felice di stare in sì dolce compagnia senza comprenderlo. ( Ep. III,176)
Riflessione:
E’ proprio importante capire che anche nel momento delle tenebre, nel momento del dolore, della prova, della difficoltà, c’è la fede e anche se non si sperimenta chissà quale gioia, nemmeno spirituale, si è come Maria e Giovanni ai piedi della croce, animati dalla fede anche nelle tenebre. Era necessario che partecipassero dell’abbandono, come Gesù, Gesù abbandonato in croce con quel grido: ”Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? ”. A quel grido ha fatto eco il dolore di Maria, il dolore di Giovanni. A quel grido ha fatto eco il dolore del mondo, il dolore di tutti i tempi, ma in quell’abbandono, in quell’abbandonarsi all’amore del Padre, c’è la salvezza del mondo. Noi tutti arriviamo alla soglia del dire con Gesù: ” Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? ”, ma non facciamo il passo successivo. In quell’essere abbandonati ci dobbiamo abbandonare, partecipare dell’abbandono per partecipare della salvezza, partecipare della morte per partecipare della resurrezione. Sono realtà che ci elevano particolarmente a Gesù Eucaristia; è Gesù che ha gridato l’abbandono, che si è abbandonato, che ha sperimentato la morte ed è risorto.
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Nelle tenebre dell’abbandono, per la nostra fede, risplende comunque una luce. Non viene eliminata la speranza e non si perde di vista la verità dell’amore di Dio, perché questa è la tentazione, che nel momento dell’oscurità si possa rischiare di non vedere più nulla, nemmeno l’amore di Dio.
San Pio scriveva:
Le oscurità nel tuo spirito sono luce, anzi è lo stesso sole di giustizia che rifulge nella tua anima. Questa è la verità e tutta la verità. Il martirio che tu senti nello spirito è prodotto da Dio stesso, cioè da quella forza misteriosa che ti tiene sempre in dolce e doloroso deliquio. Se non fosse l’opera di Dio, potrebbe essere codesto deliquio dolce e doloroso e rassegnato nello stesso tempo? È l’amore che ferisce e sana, sana e ferisce. ( Ep. III,218)
Riflessione:
Le oscurità nello spirito sono luce soprattutto quando il nostro spirito è alimentato dal suo amore e capiamo che si sta vivendo l’abbandono, il passaggio fondamentale dall’io solo all’io in Dio e se questo passaggio è spesso doloroso, sperimentiamo anche che è dolce: è un amore che ferisce e risana, risana e ferisce. Il simbolo di questo amore che risana e ferisce è quel cuore trafitto, è il Cuore di Gesù ed è il Cuore di Maria. Hanno la stessa immagine: un cuore trafitto, uno da una lancia, l’altro da una spada. Al cuore che ama è chiesto l’abbandono, è chiesta la ferita ed è chiesta anche la santità.
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Nel momento dell’oscurità ognuno di noi è portato a lamentarsi, a lamentarsi con Dio, ma questo lamento può essere inteso come una richiesta, come un’esigenza, quasi come una preghiera. Indica la necessità di qualcosa che si vorrebbe avere.
San Pio scrive:
Tu ti lamenti col Signore! C’è colpa? No! Sono i lamenti del figlio col padre, sono i sospiri dell’anima che cerca il suo bene. E siccome non vi è colpa nella ricerca di questo Bene, non vi è colpa neppure nel lamentarti che ne fai per avere questo Bene. L’anima non lo vede questo bene che è in sé, e perciò cerca, si lamenta, e sospira; ma il bene è in essa. Ed è questo bene che la muove alla ricerca ed è per questa ricerca che conserva questo stesso bene e questo stesso bene addiviene sempre più grande. L’anima cerca questo bene con gemiti, perché non ancora può possederlo nello stato perfetto. Questo bene sommo ha ferito il tuo cuore: e questa ferita è la ferita della carità divina. La ferita è spirituale, ma si riversa anche nel fisico: ecco perché tu senti, oltre lo strazio del divino Amore nell’anima, anche delle depressioni fisiche che più volte ti riducono quasi all’impotenza. (Ep. III, 218)
Riflessione:
Chissà se queste parole possano davvero applicarsi alla nostra vita, se il nostro lamentarci è davvero una ricerca del bene, la ricerca di un’anima che ha l’esigenza di trovare il bene, tutto il bene e non riesce a possederlo nello stato perfetto! Questa condizione è una condizione che ferisce il cuore, che fa soffrire sia l’anima che il corpo, ma dobbiamo saper comprendere bene quando la sofferenza fisica è conseguenza di una forte esigenza dell’anima. Non so se per noi può essere così. Certo è che per San Pio, arrivato a quelle vette di consapevolezza, di comunione con Dio, di certo sarà stato così. Quelle sue sofferenze fisiche corrispondevano davvero ad un’esigenza forte di unione con Dio. Ma se fossimo anche noi consapevoli, ogni tanto, che certi malesseri corrispondono anche ad un’esigenza dell’anima, ad un’esigenza di Dio, si comprenderebbe anche la guarigione di ferite che non vengono da cose umane ma da esperienze divine. Le ferite dell’anima fanno più male delle ferite fisiche, le ferite dell’anima portano con sé dolori indescrivibili: Gesù crocifisso, Maria sotto la croce e tante altre esperienze mistiche come quelle di San Pio. Non pensiamo tanto ad identificarci in loro, quanto ad imparare da loro, a capire da loro, per essere nella luce anche quando si è nelle tenebre.
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San Pio scriveva:
Tenete sempre davanti all’occhio della mente l’ubbidienza di Gesù nell’orto e sulla Croce: dessa fu con immenso contrasto e senza refrigerio, ma ubbidì fino a lamentarsi con gli apostoli e col Padre suo; e la sua ubbidienza fu eccellente, e tanto più bella quanto più amara… Il prototipo, l’esempio su cui bisogna rispecchiarsi e modellare la vita nostra si, è Gesù Cristo. Ma Gesù ha scelto per suo vessillo la croce e perciò egli vuole che tutti i suoi seguaci devono battere la via del Calvario,portando la croce per poi spirarvi distesi su di lei. Solo per questa strada si perviene a salvezza. ( Ep. III, 242/243)
Riflessione:
Guardando Gesù nell’orto degli ulivi e guardandolo crocifisso, possiamo facilmente scoprire le nostre disobbedienze. Il nostro vessillo è la capacità di fuggire dalle tenebre, di fuggire dalla croce, mentre Gesù l’ha scelta con amore. Noi fuggiamo dalle vie del Calvario, mentre Gesù per amore ha scelto la via del Calvario. Noi tentiamo di fuggire da ogni tipo di croce; Gesù ha scelto di essere crocifisso. Qualunque sia la nostra disobbedienza, la nostra fuga, inesorabilmente ci ritroviamo sulla via del Calvario, ci ritroviamo a portare un croce e ogni tanto ci ritroviamo anche crocifissi. In quel momento dobbiamo sapere amare quella situazione, dobbiamo saperla riscegliere anche se fino a qualche minuto prima l’avevamo disobbedita, l’avevamo fuggita. Bisogna riscegliere Dio ogni giorno, ogni momento e riscegliere anche quelle strade che in qualche modo la vita ci riserva e che non avremmo mai voluto percorrere. Come Gesù, per amore, bisogna ridecidere, in una parola convertirsi. Per queste strade arriva la salvezza, per queste strade saremo veramente in Dio: Dio in noi e noi in Lui.
Tratto dall’Epistolario III, II edizione anno 1977 a cura di Melchiorre da Pobladura e Alessandro da Ripabottoni.
Le riflessioni sono del nostro Parroco don Emilio Lonzi.
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